2012

In questa pagina riportiamo i testi arrivati per il concorso 2012, ma non inseriti dalla giuria nel volume finale.

Ringrazio Ciao Lapo onlus e la giuria del concorso letterario che ha tanto apprezzato il mio haiku da onorarlo con il primo posto e da farne il titolo del volume. Il premio ha ai miei occhi ancora più valore viste le corde delicatissime del dolore su cui la parola poetica ha provato a dispiegarsi.
Sono felice di aver scoperto attraverso questo concorso il mondo delle attività di sostegno e di formazione che l’associazione offre alle mamme, alle famiglie, agli operatori sanitari per accompagnarne il percorso dentro e accanto al lutto perinatale. Grazie a Ciao Lapo e grazie a Claudia Ravaldi, che ha saputo far fiorire il suo dolore in bene per altre persone.

Claudia Carra, vincitrice del concorso letterario “Le parole dell’amore 2012”

 

I sogni alcune volte si realizzano ed io li avevo realizzati.

Avevo incontrato la donna dei miei sogni, colei che aveva dato vita a tutte le mie aspirazioni e soddisfatto ogni mio desiderio.

Eravamo una coppia perfetta sotto ogni punto di vista.

Il nostro amore così intenso e completo aveva dato il suo frutto e c’eravamo dedicati con passione a portare a compimento la gestazione di quel figlio tanto desiderato.

Facevamo belle passeggiate e piacevoli soggiorni nei momenti che il mio lavoro lasciava liberi.

Lei, la mia dolce compagna, passava il tempo tra il suo lavoro in negozio e la cura non solo mia ma di tutta la famigliola che andava lentamente crescendo.

Nell’estate della gestazione andammo in vacanza sulle dolomiti del Brenta e fu la vacanza più bella della nostra gioventù.

Le belle passeggiate nei boschi e la permanenza sui prati avevano tonificato il nostro corpo e rinfrancato il nostro spirito, il bimbo cresceva a vista d’occhio.

Il mio amore stava diventando un palloncino.

Tutti i giorni facevamo progetti sul nostro futuro e quel bimbo, che doveva nascere per i primi di novembre, rappresentava la gioia dei nostri cuori e illuminava le nostre giornate.

Il passatempo preferito della mia compagna era di realizzare completi color giallo, la nascita era ancora una sorpresa, ancora non esisteva l’ecografia che sarebbe entrata in attività qualche tempo dopo, e ci divertivamo a immaginare cosa sarebbe nato: maschio o femmina e facevamo progetti su quale nome assegnare secondo il caso.

Ricordo le infinite prove fonetiche su questo o quel nome abbinato al cognome e le discussioni affettuose sulla scelta da fare.

La mia bella donna andava modificandosi in preparazione al dolce evento, era il primo figlio in arrivo e si portava dietro anche le preoccupazioni dell’imminente parto.

Ricordo che la sera mi faceva sentire i calcetti che dava e i movimenti che faceva all’interno della sua custodia ben protetta.

Il nervosismo della mamma andava crescendo via via che il giorno si avvicinava.

La paura dell’ignoto, la paura dell’inconsapevole stavano prendendosi un’amara rivincita.

Mi parlava dei suoi timori e delle sue paure, della difficoltà per conservare il controllo di ogni situazione in quelle condizioni.

Impacciata, si aggirava per la casa avendo cura di non scontrare contro i mobili che avevano un’altezza pericolosa, con gli spigoli a giusta altezza, e con difficoltà andava al bagno compiendo evoluzioni acrobatiche.

Cercavo di rasserenare i suoi giorni con dolci parole d’amore che spesso facevano breccia nel suo cuore, ma non sempre erano sufficienti a fermare le lacrime di paura che asciugavo con dolcezza sulle sue paffutelle guance.

Molte di quelle volte mi chiedeva con una punta di angoscia “Sono diventata brutta, vero?”

E la rassicuravo sentendo dentro di me che non era stata mai tanto bella ai miei occhi.

Il presentimento di un avvenimento negativo metteva in lei un’angoscia indescrivibile e il solo pensiero che poteva andata male le incuteva un’apprensione incontenibile.

Le vie del Signore sono infinite, ma forse ogni tanto si distrae, e permette che succedano fatti non desiderati, questa era la vera paura che si stava impossessando di lei.

La valigetta era pronta da diversi giorni e stava lì immota e insensibile alle nostre paure e illusioni.

Infine il giorno del parto tanto atteso giunse all’improvviso e iniziò con i soliti dolori di preavviso, quando giunsero a ritmo regolare con ansiosa calma, ci avviammo per la strada sino all’automobile, parcheggiata poco lontano.

Ricordo che lei si reggeva la pancia con un abbraccio, come se avesse paura di perdere il prezioso fagotto.

Corsa in ospedale con la valigetta appresso e un batticuore che ti chiude la gola.

Era giorno di scuola, non mi decidevo a lasciare la mia donna sola in mezzo a tanti visi sconosciuti, anche se amichevoli.

La sala travaglio era stata predisposta con precisione e cura dal personale, il dottore mi avverte che ci sarebbe voluto un poco di tempo e di andare a scuola tranquillo, avrebbero pensato loro a tutto, ci saremmo rivisti nel primo pomeriggio o verso il mezzogiorno, se fosse stato necessario, mi avrebbero telefonato.

Bacio il mio piccolo e grande amore con l’augurio di ritornare a casa in tre, forse nella stessa serata.

Mi avvio verso la scuola con il cuore compresso da mille tensioni, avrei voluto essere presente e di aiuto o conforto in caso di necessità.

Mi era stato negato, ma sapevo che la mia compagna era forte di carattere e temperamento ed era disposta a combattere sino all’ultimo pur di raggiungere il successo.

Qualcosa andò male, si dovette intervenire con il taglio cesareo, il bambino stava soffrendo e bisognava aiutarlo al più presto.

La sala operatoria accolse il mio amore in stato di depressione morale, l’anestesia somministrata non aveva avuto la forza di aiutare la sua forte natura femminile e lei continuava a lottare anche da addormentata, splendida nelle sue grazie femminili.

Il bambino nacque morto.

Sentenza inequivocabile, fatto assurdo e insostenibile per chi lo aveva amato e desiderato sopra ogni cosa, contro ogni convenzione e morale pubblica.

Non vi era stata prova di appello, Dio in quel giorno era scomparso dall’orizzonte del nostro orrore, nulla poteva confortare due cuori innamorati, un maledetto minuto di Sua distrazione ci aveva piombato nel baratro del più immenso dolore.

Avevamo fatto il possibile affinché tutto andasse bene, non immaginando mai che il destino avrebbe messo il dito nelle pieghe della nostra vita, andando a prendersi il frutto più amato.

Lei, immota sul letto, con dei dolori fisici che non erano un nulla in confronto a quelli morali, stava raccolta in silenzio, l’orrore che l’aveva colpita era immenso, indescrivibile, innominabile.

Non vi erano parole giuste per consolare quel dolore che era come fiume in piena che tutto travolge compreso il più caro sentimento o come valanga che si stacca da una montagna e si porta via con sé parte della montagna stessa.

Era svuotata di tutto, essersi liberata del figlio in quelle condizioni corrispondeva ad aver aperto le porte al destino.

I giorni seguenti nella ricerca di ragioni possibili passavamo in rassegna tutto il periodo di gestazione, tra una lacrima e un pianto si rivivevano mesi delle nostra vita, dei nostri sogni infranti.

Non aveva mai avuto problemi e neppure dolori di vario genere, era cresciuta del necessario e il bimbo era vispo e in continuo movimento, ricordo anche che ballava a ritmo quando sentiva della musica trasmessa per radio o alla televisione.

Siamo ritornati a casa in due, non era previsto ma così è stato.

Nei miei pensieri si era affacciata anche un’altra ipotesi, quella di ritornare da solo ed ho rivolto una preghiera al Signora ringraziandolo del dono che mi aveva concesso.

Mai quel nostro appartamentino era stato così vuoto.

Ci ha accolto con il pianto nel cuore, tutto ciò che era stato preparato, diventava estraneo e inutile.

Il nostro letto ci ha accolto nuovamente con calore e con una promessa, la prossima volta tutto finirà felicemente e sarete felici nel prossimo futuro.

E così e stato, due bellissimi bambini in seguito hanno allietato gioiosamente la nostra vita.

Quanti sogni si fanno quando si è giovani!

E poi, quando si trova la persona giusta, allora i sogni si fanno insieme, per il futuro comune.

Gli antichi dicevano che in origine c’era un solo individuo che poi fu separato con un colpo di spada e da allora ognuno cerca la propria altra metà.

E Luca era certo d’averla trovata e anche Sabrina, quando lo conobbe, fu certa che era quella la metà giusta per ricostruire l’individuo originale, quello con otto arti, quattro occhi, ma con un cuore solo, talmente grande da farne, dopo il colpo di spada, altri due.

E Luca e Sabrina cominciarono dunque a fare progetti per il futuro, il loro futuro insieme, ma non sapevano che questo è realtà, non sogni, e non ha quasi mai in serbo nulla di buono.

Si frequentarono, fecero progetti e, in pochi mesi, si sposarono.

Lui aveva il suo lavoro di rappresentanza, ma cercò di organizzarsi in modo da non stare mai via troppo tempo, mai troppo a lungo lontano dalla sua altra metà appena ricostituita.

Lei, invece, aveva una brillante carriera di ricercatrice spalancata davanti, ma si era ripromessa che se fosse venuto un figlio, quella allora sarebbe stata la sua miglior carriera, perché tirar su bene un bambino non ha pari con nessun lavoro al mondo.

Non usavano precauzioni particolari e, così, il figlio venne presto e lei prese un’aspettativa a tempo indeterminato e Luca chiese alla sua ditta ed ottenne un impiego a minor reddito, ma che non lo costringeva più ad allontanarsi da casa, da Sabrina, da quel figlio benedetto che già amavano prima ancora di averlo conosciuto.

Pensavano, ora, anche al suo di futuro, facevano sogni anche per lui, ma il futuro, come detto, non è fatto di sogni: anzi il futuro se ne frega dei sogni.

Comunque dopo il tempo giusto, il bimbo nacque, un maschietto bello e sano che subito fui sommerso di attenzioni e d’amore.

Crebbe, conquistandosi giorno dopo giorno il mondo, quel mondo che a lui pareva immenso e meraviglioso, protetto com’era da tutto quell’amore.

Imparò a camminare, a dire le prime parole, imparò i giochi, scoprì la televisione con quei buffi pupazzi e animali colorati che vi si muovevano dentro, ma che non riusciva mai a prendere.

Quando tutto è perfetto, però, qualcosa deve intervenire, perché la perfezione non è un dono concesso agli uomini.

Shakespeare ha detto: “Non siamo che mosche che gli dei si divertono a schiacciare per il loro diletto”.

Fu verso i tre anni del bimbo che gli dei decisero che dovevano fare qualcosa per impedire tanto amore, tanta perfezione, tanta felicità.

Un giorno, improvvisamente, il piccolo divenne cianotico: un rigurgito, un banale rigurgito; l’ambulanza, la corsa, la sentenza inappellabile, il dolore, per la prima volta, ma così immenso che sarebbe bastato per tutta la vita.

Ora quell’individuo che era stato ricomposto dalle sue parti originali cominciava a sgretolarsi: non c’erano più sorrisi, non c’era più felicità, non c’era più amore; il grande cuore si era irrimediabilmente spezzato.

Il dolore prima o poi si assopisce, ma non se ne va, non se ne andrà mai più: rimane addormentato nel profondo delle persone e le divora dal di dentro come e più di un cancro maligno.

Cominciarono fra Luca e Sabrina le prime discussioni, le prime liti, l’insofferenza, perché ognuno ricordava all’altro quel dolore che covava nel profondo.

E allora Sabrina, per non pensare, perché altrimenti sarebbe morta di dolore, riprese il suo lavoro di brillante ricercatrice, di donna in carriera, anche se come donna, non essendo più madre, si sentiva amputata di una parte preponderante di se stessa.

Avevano anche pensato di fare un altro figlio, ma un figlio non si può sostituire come si fa con un oggetto che si rompe: sarebbe stato infame trovare il modo di sostituirlo con un’altra creatura solo per allontanarne il ricordo: nessuno dei due se la sentiva, era il loro ultimo e definitivo dono a quel bimbo troppo amato per troppo poco tempo.

Come Sabrina aveva ripreso a lavorare, anche Luca ricominciò a viaggiare. Stava via a lungo e quando tornava erano litigi, così, senza un motivo, non fosse che gli occhi di lei e quelli di lui, se li guardavano a lungo, diventavano quelli di quella creatura che non erano stati capaci di aiutare: che razza di genitori erano dunque stati, si chiedevano? Un genitore non dovrebbe mai sopravvivere ai propri figli.

A volte Luca sbatteva la porta, usciva di casa, si chiudeva in macchina, trovava un posto isolato ed urlava, urlava fino a farsi bruciare la gola, fino a sentirsi il cuore accelerare al punto che sembrava volergli fuggire dal petto.

Poi, quando non aveva più forze si lasciava andare al pianto.

Dopo questa fase cominciò, nelle sere peggiori, quando sentiva il suo cancro pulsargli insostenibile lì, da qualche parte nel petto, a uscire e girare di bar in bar, a bere fino a stordirsi, fino ad addormentare sé e il proprio dolore in quei due metri cubi di macchina.

E un giorno partì per un viaggio di lavoro e non tornò più e Sabrina non disse nulla, non pensò nulla, perché sapeva che anche lui non aveva ancora, e forse non lo avrebbe fatto mai, elaborato il proprio dolore: naturale, perché il dolore non si può elaborare e perché i sogni che si fanno quando si è giovani non esistono, sono fatti di polvere e di nulla.

Passarono gli anni e Sabrina ebbe molti successi in campo lavorativo, ma mai più nessun sorriso.

Luca si passava di motel in motel, con la valigia della biancheria e quella del campionario, trascinando queste e la propria vita senza uno scopo, senza saper cosa, chi e perché lo costringeva a farlo: sarebbe stato tanto più semplice farla finita…

Passarono stagioni e anni, molti anni, tanti da lasciargli spruzzate di bianco fra i capelli e un giorno lui ritornò a casa, quella casa da cui erano fuggiti in due: lui e la felicità.

Bussò semplicemente e lei semplicemente gli aprì senza sorpresa ma senza gioia, poi lo guardò e vide il volto di quel bambino mai cresciuto.

Allora lo abbracciò e pianse, cosa che non faceva da anni, forse come non aveva mai fatto.

“È stato tutto per colpa mia” disse lui; “No, sono stata io che l’ho lasciato morire, io dovevo curarlo come fa una madre e invece l’ho lasciato morire”.

Forse è così che si elabora il dolore, dandosene la colpa e pagando per questa, perché se si pensasse che il dolore è ineluttabile, così come lo è la morte, s’impazzirebbe.

Oramai era passato il tempo dei sogni, ma tornarono a vivere insieme, anche se senza più gioia; non potevano farne a meno, perché, comunque, erano le due parti di un unico individuo, un individuo, però,  privo del proprio cuore.